Prima dei nomi il programma

Il rilancio del Paese in particolare dopo il Coronavirus ha bisogno del rilancio di Torino. Il declino di Torino, che inizia ben prima della crisi del 2008, fa il paio col declino del nostro Paese. Sin dai tempi di Cavour, Torino infatti ha rappresentato l’anima più vera del Paese che si ribellava alla bocciatura di Metternich che alla Conferenza di Vienna marchiava l’Italia come mera espressione geografica.

Torino diede il via alla grande apertura internazionale col primo Traforo del Frejus e con la costruzione della rete ferroviaria. Torino seppe rilanciarsi dopo il trasferimento della Capitale attirando gli investimenti esteri nelle centrali idroelettriche, nel tessile e nel lancio dell’industrializzazione. Torino seppe rilanciarsi nel secondo dopoguerra con l’esplosione dell’industria dell’auto e dell’indotto. Torino seppe aprirsi ai mercati esteri con la costruzione dei trafori autostradali alpini senza dei quali sarebbe stato impossibile esportare auto, elettrodomestici e tessile.

La sconfitta di Ghidella, cui la Fiat deve i bilanci migliori, indebolì poco per volta la capacità della Fiat di presidiare a livello mondiale uno dei segmenti dell’industria dell’auto. Le amministrazioni di sinistra, viste dalla stampa come illuminate, anche perché, morto Donat-Cattin, non fecero le barricate a difesa dell’industria dell’aut , puntarono tutto sul “loisir”, sul turismo e sulla cultura senza accorgersi che questi settori pure importanti non avrebbero pareggiato ciò che Torino stava perdendo. Così almeno dal 2001 la città e la regione non trainavano più l’economia nazionale. Neanche le Olimpiadi seppero invertire la tendenza perché nel frattempo Torino aveva perso troppa manifattura e inoltre, a differenza della Milano dell’Expo, non aveva pensato come riutilizzare i massicci investimenti, prevalentemente governativi, per le gare olimpiche. Mentre, come abbiamo visto, Milano dopo la fine di Expo 2015 sapeva già come utilizzare quell’area. Torino e il Piemonte inoltre non si accorsero per tempo che anche nel 2006, malgrado le Olimpiadi, il Pil piemontese cresceva meno della media nazionale di un Paese che già cresceva meno della media europea.

La sinistra “gauche caviar” torinese, quella che nei festival della democrazia non parla del lavoro, è molto più superba della sinistra chic milanese così non capì l’avvertimento di un Arcivescovo socialmente attento come Mons. Nosiglia: “A Torino la metà della città che sta bene non si accorge della metà della città che sta male”. Chiamparino si fidava ciecamente di Marchionne. Ma anche Marchionne sbagliò nel non credere al futuro dell’auto elettrica. Gli Agnelli, i cui interessi sono stati ben difesi da John Elkann, da un lato trasferivano la sede legale e fiscale all’estero e contemporaneamente via via hanno fatto cassa vendendo prima la Magneti Marelli e ora vendendo a Peugeot.

Il suicidio del centrodestra nelle elezioni del 2016, quando si sarebbe dovuto utilizzare il metodo Venezia, ha consentito alla Appendino di arrivare seconda e di competere nel ballottaggio, dove ella rappresentò  il nuovo e Fassino il vecchio. Nel declino, Torino, per colmo della sfiga, si affidava ai cultori della decrescita.

Perse le Olimpiadi invernali del 2026, perso il Salone dell’automobile, Torino non ha perso la Tav, solo per merito di una grande iniziativa della società civile. La lotta dei Sì Tav, cui ho dato tutto me stesso, in compagnia delle madamin e delle imprese, ha saputo ridare a Torino e il Paese la speranza del futuro attraverso la Tav e ponendo fine alla stagione del No a tutto. Ma per salvare la Tav fu decisivo il voto del Senato del 7 agosto 2019 quando Salvini si differenziò per la prima volta da Di Maio.

Quella piazza Sì Tav era la piazza della crescita contro la decrescita dei No Tav. Quella piazza ha cambiato gli equilibri raccogliendo la maggioranza silenziosa che aveva assistito a quindici anni di lotte dei No Tav, anche perché questi avevano trovato alleanze importanti dentro la sinistra culturale, torinese e no. Senza rifarsi a quella piazza, alla vision espressa nella manifestazione del 10 novembre 2018 che voleva rimettere Torino attraverso la Tav dentro la rete degli scambi europei e mondiali, qualsiasi maggioranza non avrà la forza per recuperare il terreno perduto soprattutto ora con i danni provocati dal Coronavirus che danneggeranno in modo particolare le zone manifatturiere.

Torino e l’Italia ritorneranno a crescere e a creare nuove occasioni di lavoro solo se sapranno aumentare le esportazioni e se sapranno attirare investimenti esteri. Sostituire la mole di investimenti della Fiat non sarà facile. Ecco perché mi aspetto che John Elkann reinvesta a Torino una parte di quanto ricavato dalla vendita della Fiat. Non basta avere conoscenze tecnologiche importanti per conquistarsi uno spazio nell’Europa del futuro. Occorre che l’anima della città lo voglia. Così come occorre avere la competenza per utilizzare al meglio le reti di trasporto come anima e tessuto di una nuova rinascita.

Ecco perché prima di parlare di candidature occorre avere delle linee programmatiche forti, che saranno tanto più forti quanto sarà forte la consapevolezza delle gravi difficoltà sociali di questi anni, difficoltà che sono dentro la carne viva di una città il cui tessuto economico è molto indebolito da vent’anni di bassa crescita e oggi aggredito pesantemente dagli effetti del Coronavirus. Servirà l’impegno di tutti, dalle banche che oggi dovranno sostenere con il credito e sospendendo le rate dei mutui le piccole imprese del commercio e dell’artigianato. Dovranno ripartire gli investimenti: dalla Metro 2 alla tangenziale Est, dalla ferrovia Savona-Torino al collegamento veloce Torino-Genova. Da Torino si dovrà arrivare a Genova in un’ora e a Milano in meno di un’ora cosicché gli studenti universitari, i ricercatori e gli uomini d’affari possano comunicare meglio e mettere a fattor comune le ricerche delle varie Università. Torino-Genova-Milano costituiranno uno dei più grandi bacini universitari e di ricerca del mondo così da rendere più attrattiva la nostra area. Così come occorre rilanciare il nostro aeroporto che se gestito diversamente può dare un maggiore contributo alla nostra economia.

È paradossale che oggi l’unica grande opera sbloccata sia la Tav che ha ripreso i lavori e che vedrà tra un anno a Chiomonte il più grande cantiere d’Europa con mille occupati. Ecco perché la speranza della rinascita deve poggiare su un grande programma e sulla forza d’animo che la piazza Sì Tav del 10 novembre 2018 fece sentire a tutto il Paese, anche perché gli effetti sulla nostra economia del Coronavirus ci porteranno ancora più indietro. Ma a Torino occorre una maggioranza coesa sulle scelte strategiche e a sinistra sono ancora troppi i No Tav.

Vincere non basta. Torino ha già perso l’occasione nel 2016. Per fortuna c’è stata la piazza Sì Tav. Ma la Piazza Sì Tav sono convinto si ribellerà ad aggregazioni fatte solo di sigle e piene di contraddizioni tra chi vuole una cosa e chi ne vuole un’altra anche perché gli altri non stanno mai fermi come ha fatto Milano che per non sapere né leggere né scrivere ha ospitato la presentazione della 500 elettrica ai giornalisti di tutto il mondo.

*Mino Giachino, Sì Tav Sì Lavoro

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