TRAVAGLI DEMOCRATICI

Letta: un congresso (ri)costituente

Il segretario traghettatore scrive agli iscritti del Pd per indicare le tappe di un rilancio del partito. Torna a prendersela con chi l'ha abbandonato per strada (a parte il pulmino elettrico), ma nessun accenno alle sue responsabilità

La novità è che per la prima volta c’è un leader di partito che ammette senza sofismi la sconfitta. L’inusuale è che, dopo aver indicato tutti i responsabili della débâcle, lui se ne chiami fuori. Da quando le urne hanno decretato il successo del centrodestra e la caduta del Pd, Enrico Letta ha puntato il dito contro tutti: il Movimento 5 stelle, colpevole di aver “tradito” Mario Draghi uscendo, di fatto, dal campo largo disegnato dalla dirigenza dem; Carlo Calenda, reo di aver lasciato i lidi democratici per salpare in mare aperto inseguendo il canto di Matteo Renzi.

È passata quasi una settimana dalle urne e Letta parla ancora delle alleanze che potevano essere e non sono state, accordi sottoscritti e poi traditi. Tutti concetti ribaditi in una lettera agli iscritti che ha inviato in queste ore dopo aver intinto scrupolosamente la sua penna nel curaro: “Pur avendo  subito la concorrenza di chi ci ha preso di mira con inusitata asprezza, con il dichiarato obiettivo di mettere in discussione la nostra stessa esistenza in vita, siamo il secondo partito italiano, la forza guida dell’opposizione (…). E ciò in un contesto nel quale tutte le forze politiche principali, tranne FdI, hanno perso molti o moltissimi consensi rispetto alle precedenti elezioni politiche. Oppure ottenuto risultati molto inferiori rispetto ai proclami”. Letta se la prende con chi ha abbandonato la casa, proprio lui che ha premiato Elly Schlein con un seggio blindato nonostante (o forse proprio perché) avesse sbattuto la porta nel 2015 lasciando il Pd, allora guidato da Renzi, che l’aveva eletta al Parlamento europeo per aderire a Possibile di Pippo Civati. La stessa Schlein che molti sostengono essere la candidata (senza neanche la tessera in tasca) su cui punta il segretario traghettatore per il dopo di lui.

“Abbiamo perso. Ne usciamo con un risultato insufficiente, ma ne usciamo vivi. E sulle nostre spalle c’è oggi la  responsabilità di organizzare  un’opposizione seria alla destra” prosegue. La verità è che Letta chiude il suo anno e mezzo al Nazareno con il Pd ai minimi del 2018 al termine di una campagna loffia, senza energia, abbandonato per strada persino dal suo pulmino elettrico. Per lui, però, le colpe sono da ricercarsi altrove: “L’esito di queste elezioni è stato segnato dall’impossibilità – non torno qui sulle responsabilità – di presentarci con un quadro vasto di alleanze. La legge elettorale, profondamente sbagliata e che abbiamo provato invano a cambiare, favorisce chi le realizza. La destra, pur con tutte le sue divisioni, si è coalizzata e ha prevalso nella stragrande maggioranza dei collegi uninominali, ottenendo così la maggioranza dei seggi in Parlamento”.

Nessun accenno riguardo la sua decisione di tenere fuori sin dall’inizio Matteo Renzi, ponendo le basi per la successiva rottura di Calenda, preoccupato di lasciare campo aperto al suo nemico amatissimo con cui ora addirittura ragiona di fare un partito. Riecheggia il monito di Arturo Parisi che sintetizzò in una formula  quel che un leader riformista avrebbe potuto fare e cioè tenere insieme “tutti e solo” quelli che avevano accordato la fiducia a Draghi quando Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi staccarono la spina. Più cinica ma probabilmente non meno efficace, sarebbe stata la strada di un’alleanza tutta a sinistra con M5s e la lista rosso-verde, archiviando subito l’agenda Draghi. Ha scelto una via di mezzo che nessuno ha capito, imbarcato la bad company grillina guidata da Luigi Di Maio, lasciato i suoi alleati strologare sull’abolizione dei jet privati, si è incaponito sulla necessità del voto per il Pd che i suoi stessi elettori hanno considerato inutile.

Solo in un passaggio ammette come “in questa campagna scandita da insidie e veleni, si sono manifestati evidenti i limiti della nostra proposta ed è emersa una mancanza molto grave di capacità espansiva nella società italiana”. Poi la deduzione: “Sono limiti che ci obbligano a un confronto serissimo e sincero tra di noi. Perché il Pd, per sua stessa natura, deve essere un partito espansivo e largo. Per questo dobbiamo essere pronti a rimettere tutto in discussione”, compresi il logo, la collocazione e le future alleanze.

Parla di un “Congresso Costituente” al quale lui ha già fatto sapere di non essere candidato. Individua un percorso caratterizzato da quattro fasi. “Contenuti forti e volti nuovi sono entrambi necessari. Gli uni senza gli altri rischiano di trasformare il Congresso in un casting e in una messa in scena staccata dalla realtà e lontana dalle persone”. La prima fase sarà quella della chiamata, spiega Letta, in cui il partito si aprirà a chiunque voglia partecipare “a questa missione costituente”. La seconda fase sarà quella dei nodi e consentirà ai partecipanti di confrontarsi su tutte le principali questioni da risolvere, mettendo in discussione anche “l'identità, il profilo programmatico, il nome, il simbolo, le alleanze, l'organizzazione”. La terza fase sarà quella del “confronto” sulle candidature emerse tra i partecipanti al percorso costituente. Un confronto e una selezione per arrivare a due candidature tra tutte, da sottoporre poi al giudizio degli elettori. Infine, la quarta fase, quella delle “primarie” in cui saranno i cittadini a indicare e legittimare la nuova leadership attraverso il voto. Primo appuntamento: la direzione del 6 ottobre.

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