La legge tra garantisti e giustizialisti

La “guerra” tra garantisti e giustizialisti tracima gli steccati che delineano le ideologie di destra, di sinistra e di centro mettendo a nudo i nostri più intimi travagli su quale debba essere il corretto motivo ispiratore delle leggi. I cosiddetti “garantisti” vorrebbero, nello svolgimento delle indagini e dei processi penali, una maggiore osservanza delle garanzie giuridiche al fine di tutelare adeguatamente il diritto di difesa e di libertà dell’imputato. I cosiddetti “giustizialisti”, invece, proclamano la necessità di promuovere una severa giustizia (magari rapida e sommaria) per colpire chi si è reso colpevole di determinati reati, tra cui quelli di natura politica, di criminalità organizzata e di disonesta pubblica amministrazione.

Questa contrapposizione è ricorsiva nei secoli e già Charles de Sécondat, barone di Montesquieu (1689-1755), noto filosofo francese del periodo illuminista, aveva evidenziato il problema nel suo libro “Lo spirito delle leggi”. Per Montesquieu le leggi sono «i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose» e lo spirito delle leggi è il principio che unifica le norme e le ispira nelle loro disposizioni. Giustizia ed equità, che identificano questo principio, si perpetuano, nella natura umana, sempre uguali e in tutti gli esseri umani. Le leggi sono la conseguente emanazione della convivenza sociale e quindi dello Stato. Il cittadino è veramente libero solo quando la sua volontà è conforme alla legge, cioè quando fa quel che deve, e non quel che vuole, superando le influenze che possono imporre sia le circostanze storiche, sia quelle economiche, sia quelle ambientali. Tutto ciò ha come presupposto una forma di governo che si basi sull’equilibrio e sulla distinzione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. In uno Stato non può esserci libertà se chi fa le leggi è lo stesso soggetto che le mette in atto e che ne verifica il rispetto. In Italia, ad esempio, il Parlamento detiene il potere legislativo (fa le leggi), il Governo esercita il potere esecutivo (mette in atto le leggi) e la Magistratura quello giudiziario (giudica e punisce la non osservanza delle leggi).

Quindi tutto bene? Quasi. Intanto andrebbe tutto bene se non avessimo attribuito alla funzione di magistrato sia il compito di giudicare secondo legge, con tanto di prove e imparzialità, sia l’esercizio dell’azione penale, con tanto di indagine per sostenere l’accusa. Magistrato giudicante (giudice) e Magistrato requirente (pubblico ministero), in Italia, sono entrambi magistrati ed entrambi concorrono alla nomina del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), organo di garanzia dell’autonomia dei magistrati. Inoltre, mentre la politica sicuramente indirizza le leggi, non deve vincolare il potere giudiziario, e così quest’ultimo non può ergersi a promuovere o giudicare le leggi ma deve limitarsi a farle rispettare. Su queste basi si innesta la “dialettica” tra garantisti e giustizialisti che si manifesta nella stessa “alleanza parlamentare” che sostiene il Governo.

Prendiamo ad esempio un caso di questi giorni: il così detto reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”. Il ministro della giustizia Nordio vorrebbe rimodularlo, e gli scontri hanno inizio. Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, afferma che: “Ai parenti delle vittime di mafia – a Salvatore Borsellino e Maria Falcone – dico che modificare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non è un tema in discussione, il Governo non farà alcun passo indietro nella lotta alla criminalità organizzata. Ci sono altre priorità”. Conte, presidente del Movimento 5S, attacca: “Il ministro va a smantellare i regimi di legalità e di contrasto alla mafia. Addirittura, vuole cancellare il concorso esterno. Ma stiamo scherzando?”. Elly Schlein, dal Partito democratico, afferma: «Il governo è diviso sugli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. È irresponsabile mettere in discussione il reato di concorso esterno alle associazioni di stampo mafioso. Che segnale stanno dando?»

 E qui, purtroppo, si palesa quanto buona parte del mondo politico non sappia argomentare con cognizione di causa ciò di cui sentenzia. Infatti, come ha precisato il ministro Nordio che ha studiato il problema già negli anni passati con emeriti giuristi, non esiste alcun articolo del Codice di Procedura Penale che contempli il reato di Concorso esterno in associazione mafiosa, “perché non esiste come fattispecie autonoma nel codice, ma è il frutto di una interpretazione giurisprudenziale che coniuga l'art 110, sul concorso, con il 416 sull'associazione. Questo determina un’estrema incertezza applicativa, tanto che la Cassazione ancora fatica a trovare una definizione convincente”.

Analizzando i termini usati per identificare questo comportamento, “concorso esterno in associazione mafiosa”, ci si imbatte in un accostamento improprio di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. La logica ci dice che se si è esterni all’associazione mafiosa, non si è concorrenti e se si è concorrenti allora non si è esterni. Siamo in presenza di un ossimoro come se parlassimo di un disgustoso piacere, di un illustre sconosciuto, di un silenzio assordante o di una lucida follia. Tutte espressioni concesse ai letterati ma non certo ad una legge che esige chiarezza! In questa confusione normativa, e non è l’unico caso, non è forse improvvido essere giustizialisti? In uno Stato di diritto essere garantisti non è una opzione ma un dovere. Uno Stato di diritto non deve essere giustizialista ma semplicemente giusto. Ricercare la verità, anche processuale, è un compito difficile e complesso ma lo Stato di diritto non ammette scorciatoie populiste e semplicistiche: “In dubio pro reo” (dalla raccolta “Digesto” voluta dall’imperatore Giustiniano nel 533 d.C.). Questa massima giuridica sta a significare che quando non c'è certezza di colpevolezza è meglio che il giudice accetti il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che quello di condannare un innocente. In essa è palese il principio per cui il tutelare l’innocente prevale sul colpire il reo, principio che trova applicazione nell’art. 527 del codice di procedura penale in cui si stabilisce che, nel deliberare la sentenza, «…qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato».

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