Pd, altolà ai signori delle tessere
Oscar Serra 08:00 Lunedì 14 Luglio 2014 2Il presidente nazionale Orfini a Torino: "Dobbiamo cambiare gli strumenti della competizione interna per evitare altre infiltrazioni". E sui doppi incarichi è laconico: "Prassi non opportuna". Parlerà di cambiamento con Fassino e Chiamparino - di Oscar SERRA
«Occorre separare le carriere». Non parla di riforma della giustizia ma di regole interne al Pd Matteo Orfini che questa sera approda a Torino (ore 18 alla Gam) per parlare di un partito che «cambia l’Italia e l’Europa», dopo aver cambiato se stesso. L’accento è smaccatamente romano, la barba è quasi un emblema, un marchio di fabbrica (che la ditta ha ormai chiuso i battenti) e serve a ricordare che lui, Orfini, è l’altro Matteo, quello di sinistra, cresciuto nella culla dell’apparato, che ha fatto la gavetta come segretario di sezione, alla Mazzini di Roma, collaborando con Massimo D’Alema, nella fondazione Italianieuropei, e poi al fianco di Pier Luigi Bersani come responsabile Cultura in segreteria. Ciò che a Torino pare la regola, la commistione da incarichi di partito e cariche in aziende pubbliche e partecipate, per il presidente del Pd è una stortura. «Se il partito vuole rinnovarsi deve innanzitutto rifuggire vecchie logiche di gestione del potere, che vanno dalle nomine nelle società pubbliche alla competizione interna a colpi di tessere», dice in un colloquio con lo Spiffero.
Nella tappa torinese del tour che lo porta da una festa dell’Unità all’altra, da un convegno a un dibattito in lungo e in largo dello Stivale, Orfini questa sera troverà seduti al tavolo dei relatori tutti i pezzi da novanta del partito e dei vertici istituzionali: il sindaco di Torino Piero Fassino, già segretario della federazione subalpina del Pci, poi ministro e leader dei Ds, il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, ex numero uno del Pds subalpino e della Cgil regionale, parlamentare, primo cittadino per due mandati e infine banchiere di complemento in Compagnia di San Paolo, il segretario regionale Davide Gariglio, che sul groppone ha “solo” l’incarico di amministratore delegato di Gtt e un paio di legislature in Consiglio regionale (questo è il terzo). «È la dimostrazione che non si vive di sola rottamazione e che dove ci sono candidati forti e credibili si vince anche se si tratta di persone con un passato alle spalle». La prende bassa, Orfini. Eppure lui è il garante di quel patto generazionale siglato tra i Giovani Turchi, l’anima socialdemocratica del partito, un tempo di stretta osservanza dalemiana, e Matteo Renzi. In virtù di tale accordo non scritto è salito al vertice del Nazareno e ora “collabora” con il segretario premier al “cambiamento”. Di fatto ha contribuito a marginalizzare ulteriormente tutta la vecchia guardia, quella uscita vincitrice dalla Bolognina, tanto per capirsi: «Se si guarda la foto di gruppo del Pd attuale emerge chiaramente la differenza con quello di qualche anno fa» dice soddisfatto. Lui ha deciso di governarlo questo processo, assieme ad altri giovani dirigenti democratici, come il ministro Andrea Orlando e, in terra allobroga, Stefano Esposito. Nessuna ridotta, «perché la sinistra non può ridursi a una corrente del Pd, il Pd deve rappresentare una nuova sinistra». Punto.
A Torino la foto di gruppo è però quella di 30 anni fa, tutto ruota ancora attorno ai due campioni di via Chiesa della Salute. «A livello nazionale è evidente che una nuova generazione si è affermata ed è successo attraverso una battaglia politica anche durissima, non certo per cooptazione» spiega Orfini. Sotto la Mole no. Il partito torinese è in mano a un altro renziano dell’ultima ora, Fabrizio Morri, fassiniano doc, già segretario del Pdup e parlamentare di lungo corso. All’opposizione un altro che con Fassino ha percorso gran parte della sua carriera politica, Cesare Damiano: lui a 65 anni però ha deciso di mettersi in proprio e ora guida un pezzo dei cuperliani subalpini. Per Orfini quello del cambiamento è un tema che si deve porre non solo la politica, «ma tutto il Paese. Non mi sembra che nei giornali ci sia una nuova generazione di direttori, per non parlare delle università o del mondo delle imprese e dei manager».
